Sacco, disteso in posizione sud occidentale alle falde del massiccio roccioso del Monte Motola, segna la linea di confíne tra il Cilento ed il Vallo di Diano. Vicino, s'innalza il Monte Pruno, che, per la sua posizione avanzata rispetto al "corpo" della montagna, sembra una terrazza (il "balcone degli Alburni"): sorveglia il Passo della Sentinella e la Sella del Corticato, ossia i due principali passi d'accesso al Vallo di Diano.
La Sella del Corticato a 1026 metri d'altezza, in uno scenario aspro, tra lande brulle, corre tra le pareti del Monte Motola (mt. 1700) e quelle scoscese del Cocuzzo delle Puglie (mt. 1428).
Sulla sommitá, da un'area aperta, scendendo in basso verso la valle, si scorge l'abitato di Teggiano appoggiato su un acrocoro con il Vallo di Diano.
Sacco dista km 86 da Salerno, fra le località più interessanti la Sella di Corticato, il valico fra il Cilento ed il Vallo di Diano. Confina con Roscigno, Corleto Monforte, San Rufo, Teggiano, Piaggine, Laurino.
L'altitudine minima del territorio comunale è mt. 279 mentre raggiunge la massima di mt. 1.700 con il monte Motola.
Cenni strorici
Gli Enotri
Gli abitanti del 1000 a.C del borgo antico erano di stirpe Enotra. Gli Enotri erano una antica popolazione italica diffusa in tutto il meridione di Italia e, in particolare, nella zona Cilentana; erano preesistenti alle colonie greche, che hanno occupato la fascia costiera cilentana a partire dall’800 a.C. Furono proprio i Greci a dare alle terre abitate da queste popolazioni il nome di Enotria, terra del vino. Gli Enotri, infatti, coltivavano la vite e producevano un ottimo vino. La popolazione enotra a Sacco Vecchio si fuse con quella lucana a partire dal 700 a. Cristo. Le popolazioni lucane portarono grosse novità alla popolazione enotra, che viveva di una economia prevalentemente agricola.
Del periodo Enotro esiste una necropoli nella valle della Lentrìcina dove i cadaveri non venivano inumati né tanto meno cremati, ma esposti. Studiare questa necropoli è interessante, anche se al presente non si trovano con particolare frequenza le ossa umane, che sporgevano un tempo dalle pareti rocciose o affioravano dai cumuli di pietra.
I Lucani
I Lucani erano allevatori di bestiame; possedevano numerosi armenti di bovini, greggi di pecore e capre, branchi di maiali. Avevano scoperto la salatura della carne, soprattutto di quella del maiale, che hanno praticato con più frequenza perché non anneriva come quella vaccina; anzi, per evitare l’inrangidimento che la carne salata aveva col contatto prolungato con l’aria, cominciarono ad usare le budella dei suini per custodire la carne salata e, per fare questo, furono costretti a farla a pezzetti. Inventarono in questo modo le salsicce e gli altri salami insaccati, che, poi, i Romani diffusero in tutto il mondo.
Con l’arrivo dei Lucani i cadaveri vennero inumati nelle tombe a cassettone, costituite da un fosso a forma di parallelopipedo della grandezza del cadavere, rivestito da lastre spesse di terracotta e coperte dal tipico embrice lucano, usato prevalentemente solo per le sepolture.
I Lucani spostarono la necropoli nelle valli delle Timpe, dove ancora oggi esistono numerose tombe non solo di fattura lucana, ma anche di fattura romana.
I Romani
La vita a Sacco Vecchio continuò senza particolari novità fino alla caduta dell'Impero Romano. Infatti, con la insicurezza derivante dalle incursioni barbariche e dall’assenza della legalità garantita un tempo da Roma, le popolazioni lucane, che per assicurare la sopravvivenza alle loro mandrie praticavano la transumanza estivo-invernale su estesissime superfici del loro territorio, furono costrette a fermarsi e, da transumanti, divennero una popolazione prevalentemente stanziale.
Questo comportò un riaggiustamento di tutta la organizzazione sociale, col risultato che la popolazione cominciò a praticare con più intensità l'agricoltura, affiancandola alla pastorizia. Si creò l'economia agricolo-pastorale, che ha costituito l’ossatura economica garante della sopravvivenza fino all’epoca industriale e che ancora continua, anche se modificata dall’economia industriale e post-industriale.
I Monaci Basiliani
Nel 500 dopo Cristo arrivano a Sacco Vecchio i monaci Basiliani. Questi, oltre che ad abitare nel borgo, crearono dei rifugi per la preghiera nelle grotte del Laurito. Questo luogo è legato alle Laure del monachesimo bizantino, è adiacente al borgo di Sacco Vecchio e in esso è presente la grotta più importante che è quella della Scortella.
I monaci basiliani insegnarono alla popolazione dell’epoca, prevalentemente dedita alla pastorizia, come coltivare al meglio i terreni. Infatti, questi, forti della organizzazione sociale della terra di origine - la Grecia - consigliarono dove seminare il grano, dove far sviluppare gli uliveti, dove impiantare le vigne, dove far nascere le colture estive. Insomma, organizzarono il territorio nella maniera ancora oggi esistente, allo stesso modo che in altri luoghi fecero i Benedettini. Ancora esistono nel territorio sacchese gli ulivi ultra millenari dei monaci basiliani; di questi ulivi è in corso un censimento, che sarà oggetto di pubblicazione sul sito del Comune.
La Baronia
Dei Baroni che hanno governato il feudo sacchese si elencano solo quelli citati nei documenti, riportando l’anno del documento:
- Nicola da Sacco nel 1268.
- Riccardo da Sacco nel 1298.
- I discendenti di Riccardo da Sacco nella prima metà del 1300.
- Guglielmo San Saverino nella prima metà del 1400.
- Camillo Scorciati da Castelcivita nel 1487, il feudo gli venduto dal re Ferrante D’aragona.
- Giannantonio Capace da Laurino nel 1560.
- Fabrizio Lanario da Napoli nel 1607.
- Pasquale Caputo negli anni successivi.
- Vincenzo Carafa fino al 1613.
- Francesco de Juliis dal 1613.
- Dal 1652 subentra la Famiglia Villani con Francesco Villani.
- Andrea Villani nel 1670.
- Luigi Villani nel 1705, come si legge nei Relevi feudali.
- Scipione Villani nel 1731, questi è il duca sepolto nella cripta ducale della chiesa di San Silvestro.
- Pasquale Emanuele Villani nel 1788; questi succede al padre Scipione,e regge il ducato fino al 1811, anno in cui viene sciolto il feudo dalla legge sulla eversione dei beni feudali.
La grande peste del 1656
A Napoli, nel popoloso rione del Lavinaio, si verificarono le prime morti all'inizio di maggio 1656; queste furono giudicate strane perché fuori del comune sia per età, sia per numero, sia per modalità. Il rione Lavinaio a Napoli era la parte più bassa della città e sorgeva nei pressi del porto. La peste arrivò a Napoli dalle navi provenienti dalla Sardegna. Prima che si pensasse a mettere in piedi un minimo di organizzazione assistenziale, si precipitò nel caos più assoluto. La situazione divenne incontenibile, ma, pur tuttavia, la'pidemia fu fronteggiata anche se a prezzo di 250.000 morti in una città che ne contava circa 450.000.
Nella periferia contadina del regno fu una vera strage con una mortalità che raggiunse il 50%-60% della popolazione. Per avere un quadro della devastazione che la peste feroce del 1656 provocò nel regno di Napoli basta confrontare il numero degli abitanti relativi all'anno 1648 con quello dell'anno 1669; i dati di questi due anni sono pressoché sovrapponibili per ogni borgata Cilentana e delle altre regioni limitrofe. Alcuni centri scomparvero, la maggioranza subì perdite umane così elevate che solo dopo 100 anni furono recuperate.
La peste a Sacco arrivò verso la fine di giugno del 1656. Non c'è documento che attesti l'inizio dell'epidemia, se non un richiamo di fine giugno, che interessa la parrocchia di Ognissanti di Laurino; grazie a questo documento si accetta come data di inizio del contagio nell'alta valle del Calore il primo luglio del 1656.
Le misure di salvaguardia emanate per regio decreto comprendevano la bruciatura degli indumenti e la quarantena dei forestieri nel lazzaretto, che a Sacco sorgeva (e sorge ancora, anche se radicalmente distrutto dalla ricostruzione del terremoto) in contrada S. Giovanni. Se il forestiero non si ammalava, dopo 40 giorni si ammetteva nel paese.
A Sacco queste norme di squisita validità igienicoepidemiologica non furono osservate. Del resto è menzione che in un solo comune furono eseguite al puntiglio, grazie alla meticolosità di un funzionario zelante quale si rivelò Gian Cola del Mercato di Perdifumo. A Perdifumo, per la perspicacia del funzionario delegato dal locale feudatario, si ebbero solo 78 morti, pari al 9% della popolazione. Nella maggioranza dei borghi cilentani la mortalità fu del 60% e in pochi addirittura del 100%. A Sacco fu la fine. Il censimento del 1648 conta 935 abitanti, mentre quello ricognitivo del 1669 appena 290. Morirono più di 600 persone, pari al 60% della popolazione. La vecchia chiesa non poteva contenere i morti, questi furono sepolti "fora la chiesa"; ancora oggi la via Cimitero e il Crocifisso di via Sottosanti ricordano la pietà dei sepolcri degli appestati, assieme al ritrovamento di ossa umane nel contiguo luogo denominato Gelso (Cieuzo).
Fu una desolazione. Scomparvero intere famiglie. Si visse nella attesa della morte. Ma la peste a Sacco fu l'inizio di uno splendore che mai prima di allora si era visto. Il 2 agosto 1656 accadde qualcosa di straordinario: la mortalità nel paese cessò improvvisamente. Non vi furono più i 20 morti giornalieri.
Si gridò al miracolo nel giorno in cui ricorreva la festività della Madonna degli Angeli. La tradizione vuole che sulla mano dell'immagine di Nostra Signora degli Angeli comparisse il lividore del bubbone maligno e che questo evento segnasse la fine dell'epidemia.
L'abate Pacichelli, rettore del convento del Carmine di Piaggine, scrisse negli anni successivi alla peste questa testimonianza sul " Picciol castello del Sacco, armato del titolo di contea , si è renduto venerabile pei prodigi dispensati dall'imagine di Nostra Signora nella fiera peste di Napoli, concorrendovi migliaia di fideli da varie parti del Regno, i quali con l'olio della Sua lampada si liberano o preservan da' danni del morbo epidemico”.
Giovan Battista Ferraro da S. Rufo 1'8 settembre 1656 nella lettera al vescovo Tommaso Carafa scrive "...Il Signor Giovan Battista Bottiglieri da Salerno, mio parente, et anco Servitore de Vs. Ill.ma, riconosce la conservazione della sua salute e casa dal corrente contaggio, l'intercessione della Gloriosa Vergine madre di Dio del Sacco, detta degli Angioli ... La gratia della salute sua e di sua casa la ricevè dopo l'untione dell'oglio di essa gloriosa Vergine, che mandò a posta a pigliare..."
La tradizione vuole che ogni anno nel 2 di agosto, in particolare, e anche in altri periodi dell'anno, accorressero a Sacco folle di pellegrini a rendere omaggio alla Vergine degli Angeli. Questo pellegrinaggio fu interrotto sotto l'arcipretura curata di don Dionisio Salomone sul finire del 1800. I pellegrini venivano a sciogliere i voti davanti all'immagine della Madonna degli Angeli per aver ottenuto la guarigione. Si riporta questa notizia unicamente per la testimonianza data alla peste dalla tradizione.
Il dottor Giovan Battista Bottiglieri donò 545 pecore alla cappella della Madonna degli Angeli, queste erano tenute al pascolo in Brienza e di lì furono condotte a Sacco attraverso i pascoli di S. Rufo per interressamento del Signor G. B. Ferraro da S. Rufo.
Non solo questo, perché la Cappella ricevette in dono animali vaccini, monete, monili e vasellame. Nell'ottobre del 1656 si aveva il problema della custodia di tanti averi e regalie. Significativa è la lettera del parroco don Camillo Monaco al vescovo Tomaso Carafa dell'8 ottobre 1656 "Si è fatto l’inventario delli contanti quali sono in mio potere de oro et argento ducati settecento ottanta in circa et tricento sittanta roba de rama... et anco sono inventariate tutte l'altre cose de oro, cioè cannacche, anelle et scoccaglie et altre cosette de argento et coralli, quali minutamente stando notati a libro. Resta da fare l'inventario dell'altri mobili de lino et sete, quali io non vi ho voluto ponere mano ancora... , io supplico V.S.I. a farne gratia de non farmici intricare alli negotii della detta Madre Santissima, non perché non averia lo zelo de farlo, ma perché (...) siamo venuti a termine che non possiamo agiutare la ragiuni della chiesa né tanti heredità lasciati sì alla detta Cappella come d'altri legati pii, chè il S. Duca lui se ne impatronisce e dopo gi minaccia (...) lui mi faria levar la vita, gi lo aviso con segillo confessionis."
Da questa lettera trapela l'ansia di don Camillo Monaco, che si vede custode di beni mai prima posseduti, ma più grave è la tracotanza dei feudatari, che proprio in quel periodo cominciarono a sferrare contro la chiesa una accanita guerra per impossessarsi dei beni ecclesiali; la lotta veniva capeggiata da Carlo Calà il potente duca di Diano, presidente del Real Camera del Regno, e seguito dal altri baroni tra cui il duca di Sacco Francesco Villani.
Fino al 1670 è descritto il movimento di compra-vendita dei capi di bestiame donati alla cappella della Madonna degli Angeli, segno delle rendite che la stessa possedeva per effetto delle donazioni. La grande stalla, che sorge in contrada Acera, la Cappella diruta della stessa contrada insieme alle vasche antiche della fontana dell’Acera sono i reperti architettonico-archeologici di quello che fu realizzato per la custodia del bestiame.
La chiesa parrocchiale di Sacco si trovò in breve tempo ad amministrare una immensa ricchezza. Una affluenza senza precedenti di pellegrini invadeva le vie del paese accorrendo da ogni luogo per onorare la Regina degli Angeli. I nostri anziani ancora raccontano episodi risalenti a quel periodo, come quello che vuole la dipartita da un paese di Basilicata di un pellegrino, che veniva ad impetrare la guarigione per i suoi tanti mali; questi sfinito dal viaggio si accasciò esausto nei pressi di una fontana, desolato perché non poteva raggiungere per lo sfinimento mortale la Cappella della Madonna degli Angeli in Sacco. Bevve l’acqua della fonte, affinché questa fosse la sostituzione dell’unzione con l’olio della lampada, chiedendo perdono alla Vergine per l’impossibilità fisica di sciogliere il voto davanti alla Sua immagine. Dopo un sonno profondo l’uomo si svegliò guarito. Aveva bevuto l’acqua alla fonte dell’Acera, di lì raggiunse il paese per cantare le lodi della Madonna.
Nel 1756, dopo cento anni dalla peste feroce, si diede inizio per volontà del clero e del popolo sacchese alla costruzione dell’attuale chiesa parrocchiale quale segno di riconoscenza alla Vergine Regina degli Angeli. La peste che tanto dolore aveva portato si era tramutata in una occasione di grande rinascita. Si rinvigorì il culto della Vergine, il popolo ritrovò incoraggiamento e guida nella fede. L'opera di ricostruzione fu senza tregua, ogni cittadino contribuì col proprio lavoro e chi non poteva prestare opera donava parte delle proprie sostanze.
[Cit. Tratta dall’opera “SACCO” del dott. Antonio Donato Macchiarulo.]
Fondazione di Sacco nuovo
L'insediamento non è nato per aggregazione temporale lungo assi viarii principali, ma con una precisa volontà di assegnare ad una popolazione numerosa degli spazi abitativi sufficienti. Interessante a riguardo è lo studio della pianta della parte più antica del paese, che ha una struttura a graticola, costituita da vie trasversali aperte a mezzogiorno, che partono da due vie a semicerchio e che abbracciano la parte alta e la parte bassa del paese, mentre una via longitudinale divide in due l’agglomerato ricevendo le vie trasversali. Questa struttura fa capire che Sacco fu fondato con un piano edilizio particolare, progettato per rispondere in tempi brevi alle esigenze di una intera comunità che si era spostata da Sacco Vecchio, distrutta da eventi naturali avversi - come scrive il presbitero Pascale -, o da eventi belligeranti - come recita la notizia dell’abate Francesco Sacco -.
La costruzione del campanile dell’attuale chiesa di S. Silvestro risale al 900 avanti Cristo. Questa costruzione, per stile ed altezza, è da attribuirsi al periodo riferito. Gli stadi poligonali, di sapore longobardo, costituiscono l’ossatura di tutta la struttura. Simile ai torrioni rivieraschi del periodo svevo, ma più snello, con un gradiente di rientro che vede gli ultimi stadi ridotti proporzionatamente in grandezza, in modo da offrire all’insieme l’aspetto di un pinnacolo armonico e, nello stesso tempo, dinamico; quasi come se tutta la struttura fosse dotata di movimento. Gli stadi conico e cilindrico, anche se arrivati dopo nove secoli, hanno completato architettonicamnete la costruzione, trasformandola definitivamente in campanile, proiettandola, col suo aspetto sobrio, verso l’alto, in un atteggiamento sacrale, meditativo. Infatti, più che un campanile era una torre, dalla quale si dominava tutta la vallata. Gli spigoli della struttura sono orientati in maniera perfetta verso i punti cardinali fondamentali, alla maniera longobarda.